Sono iniziati il 6 maggio nelle Seconde e Quinte classi della Scuola Primaria i test INVALSI (Istituto Nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione), introdotti dal Ministero dell'Istruzione per monitorare i livelli di apprendimento conseguiti dal sistema scolastico di base.
Il problema è che questi test, strutturati come una sorta di concorso, sono uguali per tutti gli allievi, e quindi non tengono in nessun conto le differenze di situazioni personali e i percorsi individualizzati che vengono attuati per venire incontro alle diverse problematiche che la scuola di oggi si trova ogni giorno ad affrontare.
Il risultato? Le scuole “di periferia”, quelle – per intendersi – con alte percentuali di alunni stranieri o con bambini che provengono da famiglie in situazioni di svantaggio socioculturale e in cui vengono attuati percorsi individualizzati con un’organizzazione didattica calibrata alle effettive capacità ed esigenze d’apprendimento degli alunni, risulteranno le “peggiori”, nonostante il grande lavoro che viene fatto ogni giorno per incoraggiare l’integrazione e per sviluppare le potenzialità di ciascun alunno.
Ma il problema non è solo questo. Il questionario per le Quinte contiene domande del tipo “A casa tua ci sono:” con risposte come “Un allarme antifurto” o “Quante di ciascuna delle seguenti cose ci sono a casa tua?” per sapere quanti bagni e quante automobili possiede la famiglia del bambino.
Al di là del fatto che porre questo genere di quesiti, a mio parere, lede il principio della privacy a cui anche i bambini hanno diritto, non vedo ciò possa essere utile per la “valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione”. Mi sembrano piuttosto degli assurdi strumenti per un censimento “sociale” degli alunni e un inammissibile mezzo per “valutare” e classificare scuole di serie A e scuole di serie B, con buona pace dell’ insegnamento individualizzato, dell’integrazione socioculturale e scolastica e delle pari opportunità per tutti.
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